Matteo Massagrande

Nato a Padova nel 1959, Matteo Massagrande è pittore ed incisore, profondo conoscitore della storia dell’arte antica e contemporanea. Si interessa allo studio di antiche tecniche di pittura, di incisione e all’arte del restauro.

Frequenti sono i suoi viaggi in Europa e nel mondo, pretesti, spesso, per sviluppare cicli pittorici e grandi composizioni. Ha iniziato ad esporre nel 1973 partecipando a mostra collettive e a concorsi, ottenendo numerosi premi e riconoscimenti, tra i quali il Premio Internazionale Città di Pordenone 1980, il Premio Rizzoli per la grafica 1982, il Premio Burano di pittura 1986; ottiene il Premio Under 35 alla Terza Biennale d’Arte Sacra di Venezia 1987. Parallela a quella pittorica si è sviluppata l’attività grafica iniziata già nel 1974, sottolineata dalla presenza in numerose collettive di prestigio.

Recentemente alcune sue incisioni sono entrate a far parte del Gabinetto delle Stampe degli Uffizi di Firenze. E’ sempre stato fedele, rifiutando tutti gli “ismi” e le mode del tempo, a una sua personale visione pittorica nobile. Il suo linguaggio è una sintesi colta tra la grande storia e le più moderne ricerche figurative. Ha all’attivo oltre cento personali in Italia e all’estero. Le sue opere si trovano in numerosi musei, chiese, collezioni pubbliche e private.

Le stanze di Matteo Massagrande sono ambienti dall’incanto ipnotico in cui viene voglia di perdersi. Vuote, si, in quanto non solo disabitate, ma prive addirittura di arredi, di qualsiasi lascito. Eppure l’effettivo vuoto fisico è a malapena avvertito, subito emendato dalla profondità degli echi che risuonano tra i muri scrostati e le piastrelle consumate dal tempo, dai raffinatissimi giochi della luce morbida e pluviscolare, dal senso di un vissuto che si avverte ancora lì, presenza invisibile ma potente. Muri scabri, infissi che portano inciso il proprio vissuto, pavimenti consumati da passi perduti. Cosi sono le stanze di Matteo Massagrande, luoghi abbandonati con un’unica protagonista: la luce.

Vive a Padova e divide la sua attività tra lo studio a Padova e quello di Hajòs (Ungheria).

Eterni Interni

Dal 22 ottobre al 27 novembre 2016

Apologia del tempo di Franco Basile.

Gli interni sono scatole dove il silenzio racconta la vita stando dalla parte dei sogni, dove le ombre si fanno poetica di sottili attese mentre la sintassi della raffigurazione organizza la geografia del tempo. Gli artisti si trattengono a lungo in queste scatole, che sono grandi quanto uno desidera, che si possono immaginare immense come sale d’aspetto ai bordi di un oceano dove un rabdomante dell’indistinto conta i grani della solitudine. Impassibili a qualsiasi intromissione esterna, luci e ombre fanno comunella con le cose. Lo sguardo si posa su un barattolo, su un fiore dai petali rinsecchiti, su una bottiglia, su un orologio appeso al muro, su tocchi di colore ipersensibile allo spazio, su oggetti con i quali si possono stabilire relazioni di ordine emotivo. I calcoli degli artisti sono magie, fughe nell’illusione, invenzioni che rimbalzano da una parete all’altra, da un tavolo a un cavalletto, su ripiani senza regole fisse, in luoghi dove la filigrana del pensiero si fa complice di forme sempre diverse, su pagine dai reticoli intensificati da linee fantastiche, quindi su scritture che ricordano viaggi oltre i margini di un mondo che dalla periferia di un intonaco porta all’immensità di una nuvola, fra le righe di un cielo che esiste solo nella trama di una tela. Gli artisti sono maghi dallo sguardo lungo, esseri capaci di trasformare le memorie in particolari che includono molto del nostro presente. Riprendere ricordi ed evocazioni è forse l’unico modo che conoscono per trattenere una sensazione, qualcosa che si ricorda solo se viene raccontata, e dunque momenti e figure che riaffiorano, e permangono, tracciando parole e diluendo colori. Gli interni offrono alla poesia un accogliente eroismo, un fantastico sodalizio con chi frequenta l’epicità della tavolozza, delle emozioni, dell’assurdo.

In questa mostra s’intrecciano linguaggi di artisti la cui striscia creativa descrive un arco di tempo che dal secolo scorso porta ai giorni che stiamo vivendo. Quante storie si possono vivere nelle loro stanze, quante cose determinano una perpetua metamorfosi nell’evocare l’invisibile che si nasconde dietro la realtà. Testimonianze di sé alle pareti, dipinti, vicende colorate per dare sostanza alla memoria, immagini di persone, tocchi di pennello in spazi dove tutto è sempre diverso rispetto a quanto fa pensare il suono isocrono di una pendola. Negli interni tutto si trasforma nella rilettura di quanto stabilito dal giorno e dalla notte, nel passaggio di idee che modellando l’esistente premeditato dalla natura finiscono per compiacere a un sogno che dura, perpetuandosi in un tratto che resta, in ciò che si lega a un ricordo che non si cancella. Sono sei i pittori che danno vita a questa rassegna, sei modi di determinare la misura del tempo stando all’interno di una stanza dove oggetti, ombre e colori fanno riflettere sulla durata della vita, che può essere lunga come la bellezza di chi si ama, rapinosa come un bacio rubato, labile come la fiammella di un cerino. Dino Boschi, Matteo Massagrande, Raffaele Minotto, Nicola Nannini, Giorgio Scalco, Alberto Zamboni, autori che con le loro opere offrono gli elementi necessari a un racconto pensato, silenzioso, liricamente avvolgente e armonico nell’esplicita raffigurazione di un universo dai confini segnati tra pittura, simbologia del colore, materia delle cose, riflessione sullo scorrere degli anni.
C’è chi crede che il tempo sia un calcolo affidato alla fatalità delle cose, a ciò che determina il passaggio tra un inizio e una fine, come un raggio di luce che diventa ombra, o una luminosa tessitura che si spegne al sopraggiungere della notte. Il tempo si può calcolare in tanti modi, con una lancetta d’orologio, con un suono, con segni alle pareti come rughe sotto gli occhi, con tratti nello spazio che marcano presenze e attese, con desideri e amarezze che danno importanza a ricordi che rimbalzando sul presente lasciano tracce qua e là, fino a un intreccio di rette e parallele, con fili tenui come quelli di una ragnatela affidata al gioco delle apparenze. Ripercorrere il proprio tempo è un esercizio praticato da molti. Può succedere imboccando la strada contrassegnata da nostalgia e rimpianto fino all’imbocco dell’oggi, può verificarsi sull’onda di una recherche che si vorrebbe capace di riportare a teneri umori di giorni andati: frammenti di vita, insomma, da rileggere come una dissolvenza incrociata tra ciò che è stato e ciò che si affaccia all’immediato.

Le stanze dove Dino Boschi ha misurato il tempo sono quelle dove ha lungamente vissuto, e dove ha trasformato le cose in scandagli del sentimento. In casa aveva tutto quello che gli occorreva per dipingere e sognare, i suoi interni erano selfie di antiche verità, vecchie cose che lo portavano alla trattazione di un mondo da raccontare attraverso l’innovata dimensione di un ambiente che conosceva come le sue tasche. Riprendeva quello che gli cadeva sott’occhio, ricostruiva cose che il meccanismo dei pensieri aveva macinato assieme a fatti lontani, elementi che riscopriva nella patina di una polaroid, in un foglio spiegazzato, in un contenitore di ceramica che portato all’orecchio ricordava un tratto di arenile, una spiaggia più volte dipinta, e mai frequentata. Raccontava anche la musica che riscopriva a occhi chiusi per posarla sul cavalletto, assieme ad esecutori senza nome. Musici dalle espressioni assorte in un angolo spoglio, simbolo di una realtà che doveva fluttuare tra le note di un malinconico motivo.

Gli interni di Matteo Massagrande sono spazi di un tribunale dell’abbandono in attesa della deposizione di testimoni carichi di ricordi, di persone che agli atti di un procedimento imbevuto di malinconia risultano custodi di fatti lontani. Le stanze sono spoglie, dall’esterno filtra poca luce, le finestre – per dirla con un pensatore junghiano -fanno pensare ad aperture sull’interiorità. Le immagini proposte in questa mostra ricordano la partecipazione dell’artista padovano a una iniziativa tenuta in una sala espositiva di Bologna, dove furono proposte opere quali contrappunto visivo di un racconto di Paolo Crepet. Titolo della mostra bolognese “Il silenzio opaco”, colonna visiva di uno scritto dagli effetti stranianti. L’ambientazione traeva ispirazione da un edificio in rovina con i locali descritti come malinconico ricordo di un vivere ormai concluso, una messa in scena di allusioni psicoanalitiche e di sensazioni ingrigite dal senso dell’abbandono. Polvere, fenditure alle pareti, finestre aperte sul nulla, un resoconto della tristezza dove la componente del silenzio investe significati metafisici, tratti sulla tela eseguiti da uno stupito navigatore immerso in una sbiadita realtà, in un mondo di ordinario abbandono.

La luce è come se si pavoneggiasse rimbalzando su specchi e pavimenti di marmo. Tappeti, poltrone, lumi e tendaggi popolano la casa secondo la geometria della profusione. Le sale sono ampie, sembrerebbero confortevoli, ma nessuno le abita. 
Gli interni di Raffaele Minotto hanno un aspetto che risveglia ricordi. Ma quali? Deserte di presenze umane le stanze si rivelano realtà costruite nel vuoto, mentre nel silenzio avviene un rapporto tra cosa e cosa, tra fantasia e pensiero: stanze dove si respira una presenza che esiste senza esserci. Nel resoconto pittorico di questa solitudine, i colori corrono mischiandosi a sciabolate di luce, si intrecciano per poi sedimentarsi nell’evocazione di un universo denso di rossi, di bruni, di grigio-azzurri quali fossero momenti finali di un’idea rivolta alle cose che costituiscono il senso di una vuota attesa. Quella di Minotto è una pratica labirintica tesa a dare vita a un pensiero fatto di reminiscenze, un pensiero libero, senza particolari premeditazioni linguistiche.

E’ al risveglio che avviene il libero scambio delle illusioni. In un letto sfatto sfumano i colori della notte, il laboratorio dei sogni ha premuto l’off quando l’alba ha cominciato a battere contro i vetri. Che cosa è rimasto della notte? Tra le pieghe di una coperta smossa fili di luce danno corda alle ombre. Attorno le cose riprendono il gioco delle metafore. Ci sono i pennelli, il cavalletto, tutto induce Nicola Nannini a fare, di un mondo personale, qualcosa che assume simbolicamente le regole del tempo. Gli umori del mattino giocano a dadi con il colore acceso di una coperta spiegazzata come un plastico del risveglio, l’occhio segue i consigli di un cielo dove tutto è sempre diverso nel ripetersi delle nuvole, del disegno di una casa con i balconi che sembrano braccia incrociate, della cima di un albero che sbandiera la propria presenza rosicchiando un pezzo di cielo. La giornata di Nannini comincia da un letto sfatto, che osserva studiandolo come una mappa con stampigliate indicazioni su ciò che l’aspetta nella stanza accanto, o nel resto della casa. Prende appunti da una coperta arancione per trasformare una vecchia lavagna in un paesaggio patinato di bianco, affronta la quiete annoiata della quotidianità per inventarsi un automa di legno con cui battersi contro gli stereotipi della noia. Si muove lentamente, pensa a una figura, a un paesaggio, cataloga un ricordo suggerito da un oggetto che ha viaggiato con lui da una casa all’altra. Tutto, nella stanza dal letto sfatto, sembra sospeso nel tempo. Dipingere per Nannini deve essere come esercitare l’apologia del tempo: ciò che vede è ciò che qualche istante prima ha forse vissuto nell’illusione, come un corpo vagante in attesa di essere ancorato alla tela.

Giorgio Scalco ha la capacità di cogliere con pochi tocchi le vibrazioni più sottili delle cose, o di uno sguardo. I suoi personaggi, generalmente fanciulle, vivono frazioni di tempo che nascono dall’interazione di frammenti illusori e oggetti sfiorati da luminose sfinitezze. Una serie di elementi descrittivi accompagnano un pensiero che pare unirsi e formarsi nella vaghezza di una stasi visiva, quale attimo programmato da un sogno stabilito da una consapevole trattazione del silenzio. I personaggi di Scalco posano in ambienti dove il tempo è una giostra che ruota lentamente in base a un principio meccanico che nella reiterazione del moto si fa letargico svolgimento, un racconto dove il senso del vuoto è un canto alienante, un inno alla ricerca di qualcosa che nessuno sembra trovare. Il teatro di posa dell’artista è un luogo disadorno, comunque ricco di effetti evocativi. Oggetti destinati alle nature morte fanno da sfondo ai soggetti ripresi, scorre intanto la pellicola del silenzio mentre il vuoto colora l’inquietudine, il ricordo sembra lontano e al tempo stesso prossimo, forse impresso in un accenno di sorriso sul volto di uno sconosciuto.

Esseri indefiniti, sagome che sfiorano la vaghezza, memorie che si posano su tavole visionarie. Tra senso del provvisorio e stabilità del reale, Alberto Zamboni racconta la notte sottovoce, descrive la propria solitudine calando sulla tela realtà anonime, prende confidenza con la spettralità delle ombre in scenari brumosi come declinazione differita di verità rilette in chiave fantastica, formalizzando così scenari inattesi. Zamboni esplora la vita facendosi strada nella nebbia, non ha bisogno di uscire di casa per esplorare la terra che lo circonda, per incontrare gente gestita dal silenzio, per chiacchierare con qualche imbalsamatore di pensieri perso nel buio. Nuvole basse alimentano la pioggerella che vela i paesaggi dell’artista il quale, facendo sue idee di Edward Hopper, si chiede come si possa raccontare con la penna il momento che si cristallizza nel vuoto. Difficile tradurre in parole una determinata poetica. Hopper diceva che se si potessero raccontare certi stati d’animo con gli scritti, non ci sarebbe alcun motivo per dipingere. Zamboni sembra d’accordo con il pittore americano, che ha voluto ricordare augurandogli la buonanotte da un bar con due o tre avventori, più che altro ombre prelevate da una zona semibuia di New York. Rileggendo Hopper, l’artista bolognese ha immaginato un punto dove il silenzio delle ore piccole è l’unica compagnia di gente che ha immerso ogni ricordo in un bicchiere di whisky. C’è da perdersi negli interni di Zamboni, non esistono pareti, si va da New York a luoghi dove la bruma gioca a dama con i corsi d’acqua. Gli interni di Zamboni contengono anche stadi, immaginati durante partite di calcio che nessuno vede, perché c’è nebbia. Gli spalti sono gremiti, ai tifosi la nebbia non dà fastidio, tanto i giocatori sono ombre.

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