Nicola Nannini

Nicola Nannini (Bologna, 1972) è un esponente della giovane pittura italiana.
Dopo gli studi classici si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Bologna con il massimo dei voti. È docente di disegno e figura presso la Scuola di Artigianato Artistico di Cento e docente di pittura presso l’Accademia Cignaroli di Verona. Attivo dalla metà degli anni Novanta, è stato incluso in mostre di interesse nazionale e internazionale e ha tenuto numerose personali in Italia e all’estero.
Numerose sono le pubblicazioni che lo riguardano.

Compiuti gli studi istituzionali, ha condotto autonomamente la propria formazione a contatto con le opere di grandi maestri dell’arte italiana e europea, dalle quali ha assimilato le tecniche della pittura, del disegno e della grafica. Tali istanze si fondono nelle sue opere, dove il dialogo costante con la propria formazione culturale è parte integrante della poetica. Nannini affronta cicli tematici che vanno dalla catalogazione di tipologie umane e urbane a paesaggi di più ampio e lirico respiro, all’insegna di un’ambivalenza quasi contraddittoria, ma consapevole tra esigenze simboliste (o romantiche) da un lato e aspirazioni razionalistiche dall’altro; nella volontà di catalogare lucidamente l’ambiente circostante e le sue peculiarità. Un’enciclopedia per immagini del nostro tempo.

La materia pittorica, la tecnica sapiente ma arrischiata e le esigenze plastiche sono una scelta costante nel lavoro di Nannini. Ogni opera si muove tra l’esigenza “ macro” di una visione d’insieme o “senza occhi” e la necessità di una letteratura del dettaglio. Un movimento dinamico dal particolare all’insieme e, viceversa, dal macro al micro. La pittura, così, vive di paste e spessori, di materia e dissolvenze, sino a farsi liquida e diafana nella ritmica alternanza delle differenti messe a fuoco. La stasi del dettaglio si affianca al gesto più azzardato: la colatura e lo svelamento delle “preparazioni” nei brani di non finito, avvolgono, dinamiche e incuranti, tasselli di precisione descrittiva. Prospettive talora improbabili o inverosimili a volo d’uccello, “dal marciapiede in primo piano sino all’azzurro sfuocato di un lontano infinito”, sono funzionali alla finestra su un mondo in costante divenire.

Vive e lavora tra Bologna, Vicenza e Verona.

Dal 6 ottobre al 17 novembre 2018

Un mare di terra
di Franco Basile

Tutto nei racconti di Nicola Nannini pare svolgersi lungo una striscia animata dal ricordo, quasi a dire, in un tragitto dove tempo e cose si stringono per prendere accordi con la realtà presente. Sospesi in un esercizio evocativo, le immagini formano un racconto nella vaghezza di un passato che il pittore è come se incontrasse fra le trame di una lontananza più prossima di qualsiasi cosa. Questione di sentimento, Nannini sogna di essere quello che vuole, di ritrovarsi ovunque attraversando i molteplici territori dell’arte. I colori sono appunti della mente, sono tratti autobiografici, incontri dello sguardo e della rievocazione. Ripassi del tempo, tentativi di ciò che è stato? No, Nannini non è pittore che scaldi la memoria nel pentolino della nostalgia, che si attardi in trasferimenti ipnotici verso il rimpianto. Ha il mondo sotto casa, lo inquadra velocemente. A due passi dalla casa dove vive si allunga un argine che porta ai campi e all’estensione che ama tratteggiare, a quanto gli è più prossimo, che l’avvolge con le sue luci e i suoi colori. Dunque una vicenda di suggestioni, di oggetti, di spazi aperti, di considerazioni surreali, di cieli bianchi di nebbia e di uomini che attraversano la piana come naviganti di un oceano di terra e di alberi. Poi ci sono il giorno e la notte, il vuoto e il pieno, scritture e colori innestati in una storia capace di tenere tutto unito.

Non è possibile omologare i passaggi del tempo, ogni identità è variabile, tutto appare diverso quando luce, pioggia e vento decidono di fare a modo loro. Come avviene per la vita, la natura segue la legge dell’imprevisto mentre tutto quanto ci circonda sopravvive alla propria estinzione. I rami le zolle, le foglie e l’erba, ogni cosa è pronta alla trasformazione, a farsi nuova identità. Proprio per questo la natura offre tutto alla poesia, anche la possibilità di nuovi punti di contatto con ciò che è stato, o con un quotidiano che alla mente di un artista può diventare assoluto. Nannini rincorre le ombre, le inquadra a mo’ di tappeti semoventi gettati dove capita, sotto un albero, ai piedi di un muro dove un lampione proietta parte di sé secondo toni rosso-brumosi, oppure alla base di un cipresso indifferente al triste ufficio cui è destinano allorché vien fatto ergere da un cimitero, affusolato corpo nero-verde che s’inebria quando la luna rimane appesa alla propria cima. Il vento scuote il culmine dei rami, nuvole cariche di pioggia viaggiano contromano, il pittore annota tutto, segna sulla pagella del sentimento ogni fatto che lo colpisce.

La natura è un viaggio onirico, una forma di vita che può trasformarsi in romanzo lirico della terra. Nannini non ha bisogno di scoprire o rivedere cose lontane, adesso viaggia senza muoversi, gli è sufficiente fare quattro passi per incontrare quello che cerca, di giorno, di notte, sempre. Si muove in compagnia dell’idea di dover portare a termine un compito. Per un po’ il pensiero è un assillo che lo conduce qua e là, fino a trovare quello che cerca. Verità e immaginazione, gocce di fantasia che calano come un dripping senza regole, una pioggia di luci e colori, un gioco di immagini destinate a marcare la superficie dei sogni. Inesauribile reporter di emozioni il nostro pittore ritrae situazioni estetiche, i cambiamenti che il tempo apporta alla terra, tutto ciò che, in fondo, può essere tradotto secondo una misura evocativa. Nei lunghi attraversamenti della pianura e come se si sentisse un collezionista di sogni.

Il tempo, i luoghi, le cose, la sua è una raccolta di echi dove emerge l’enigma del tempo. Lungo le vie che tagliano i campi si esercita ogni giorno in vista di una corsa solitaria, senza concorrenti se non il mistero d’esistere. Sotto il sole, nell’oscurità, di giorno, nella brillantezza di un’aurora o sulle rive di un fiume. Tramonti e albe, ombre che si agitano durante notti cariche di un’energia invisibile che si avverte nell’agitarsi di un germoglio come metafora di quanto è stato, oppure annuncio di ciò che avverrà. Lo affascina il pensiero di ciò che si cela al di là del buio mentre il filare dei minuti dilata la misura della vita.

L’oscurità racchiude un giorno prossimo a venire, e così per sempre, fino a quando un lume qualsiasi avrà la possibilità di rischiarare un tratto d’esistenza. L’ombra è un segreto nel vuoto, oppure, per l’artista, una nube che avanza sospinta da una fantasia retrospettiva. Correre da un punto all’altro, da una borgata a un campo di grano, apparire qua e là per meglio nascondersi, coltivare illusioni che incontrano l’ansia di un futuro possibile, un epico avvenire che si sbroglia ogni volta che il sole si libera dei lacci della notte. La luce cancella le tracce di ciò che sarebbe potuto accadere, di ciò che era latente nelle pieghe del sonno, o che sembrava germinale in una realtà ancora da valutare e dentro alla quale ci si può nascondersi in compagnia di un filo d’erba, o di un rosso papavero. Nella mente cose e uomini scomparsi gli fanno compagnia con la loro assenza, con i loro lunghi tratti di ricordo. Chiude gli occhi, lancia la rete della memoria, la tuffa nel fondo della terra che si espande simile a uno sconfinato mondo d’alberi, di canali e di spazi rigati come una tabella marcata da mille solchi. Quando gli sembra giunto il momento, tira su la rete e la ritrova piena di storie, di ricordi che nel gioco dei rimandi si trasformano in effetti da custodire per sempre, in immagini destinate a chi sa guardarle.

Nelle vicinanze di casa si estende dunque un mare di terra e di alberi, di corsi d’acqua dalle rive rugose soppalcate d’erba e canneti che si spingono chissà dove, fino all’indefinitezza della costa, in un altrove dove il mare non ha isole come quelle descritte dall’artista, cioè casolari nella notte o vecchie strade con i geroglifici di trascorse esistenze. Oppure sono grumi abitati da figure immobili, quasi messe in posa, personaggi che fissano la strada quasi a voler calcolare il passaggio delle ore. Qui, l’atmosfera è stordente, commista a dati sospensivi di memoria boekliniana e lucori simbolisti. Qui si vive l’aspettativa di imprecisati eventi, magari di qualcosa che possa smuovere il gravoso stato d’attesa al quale sono sottoposti uomini e cose.

Agli occhi del pittore uno spicchio di pianeggiante universo attorno a casa determina e riflette animati svolgimenti creativi. Il territorio che attornia la sua dimora è un mondo dai confini invisibili entro i quali è facile dare forza alla libertà del sentimento, e dove è semplice accedere all’utopia seguendo un indirizzo dagli accenti fantastici. Osservare questo mare di terra, e tutte le cose che si ammantano di silenzio, può essere un’avventura nel tempo, qualcosa che consente di sopravvivere alla propria fine. Ripassi della memoria, rimpianti? Le perlustrazioni di Nannini nella piana sono un’abitudine, un esercizio dello stupore. Qui trova motivi d’ispirazione, soprattutto ritrova sé stesso. Gli sembra di specchiarsi nel tempo che ha vissuto, in quei giorni che paiono scorrere in un lucido defilé ai bordi di un macero dove andava a nuotare quando era bambino. Ora, un punto dove si sofferma spesso si trova in quel che resta di un borgo semidistrutto dal terremoto. Lo imbarazza il senso stupefatto che si legge negli occhi di una gotica figura immersa nella luce di un cielo sottovento. Sono attimi, sposta lo sguardo, scopre altri punti tra cui oggetti che paiono voler tener nascoste le loro vicende più intime. Ecco nuove emozioni, sensazioni larvatamente alluse per lasciare aperta la narrazione a qualsiasi storia. Ripercorrendo i ricordi una certa storia potrebbe essere cominciata dalla fine di una giorno, quando i pensieri del pittore si posarono a cavallo di un crepuscolo e il blu diffuso di una sera che si era appena accorta che il sole se ne era andato. Allora il pittore era molto giovane e non impiegò molto a farsi convincere dal paradosso di un’ombra che si stropicciava contro un faggio lasciando credere di poter continuare a distendersi in una normalità perpetua. Ma esiste la normalità di quanto ci è vicino? Sembra invece che tutto cambi a seconda degli umori del tempo, per cui tutto si illude che la vita rientri nell’uniformità delle cose.

Ci sono momenti in cui la tentazione di conoscere il passato è forte. Per Nannini il viaggio nella conoscenza è prassi di ricerca, lo fa, e lo dimostra, per rompere con ogni premeditazione. E’ come se si divertisse a frequentare antichi maestri per sillabare un nuovo alfabeto e dare particolare vigore al proprio linguaggio. Un fare, il suo, che non cerca scorciatoie poveriste, informali o astratte. Per dirla con Bernard Shaw, c’è chi dipinge per osservarsi dentro, per raccontare non quello che vede, ma che sente. Nannini è un romantico, il sentimento lo porta a celebrare sensazioni dove la filosofia incrocia la poesia, come quando rivolge leopardianamente domande alle stelle riflesse in un tratto di fiume, o alla luna. “Che fai silenziosa luna?” chiedeva il poeta di Recanati in una notte intessuta di scuro e di silenzio. Sono frequenti i viaggi notturni di Nannini, se non altro per dar forza a taluni incanti della memoria. Una visione gli torna spesso alla mente, quella vissuta in un momento in cui spolverava con i pennelli la mitologia dei luoghi. Quella sera le nuvole si erano messe in coda sospinte da una corrente leggera, non c’era pericolo di tamponamento. Nivei vapori passavano davanti alla luna, tutto era tranquillo, una casetta pareva sorretta da due colonne sormontate da cigni di pietra mentre l’ampollosa sfinitezza di un salice si manifestava con un tuffo di rami in un laghetto dalla superficie immota. Passeggero della notte Nannini era profondamente concentrato nell’ osservare quello che si rifletteva contro la parete di un’abitazione dalle finestre azzurrate da un televisore. Intorno regnava la monotona consapevolezza di una pendola che, lanciando le solite note, ricordava lo svolgersi del tempo. Le luci andavano e venivano, i lampioni facevano a gara con le ombre. Deve essere bello per un pittore trascrivere nella tessitura di una tela il fruscio dei rami, il rumore dell’acqua, il suono di un lontano richiamo. Notte e giorno, luci e ombre, la pianura attraversata dagli occhi e dalla mente. I pali della luce che schizzano lungo le strade mentre dai vetri di una finestra si passa da un improvviso baluginìo a un senso di smarrimento. Nei quadri le ore paiono veleggiare assieme alle nuvole quasi a voler concedere all’artista la facoltà di illudersi sulle cose, e nel piacere del ricordo offrirgli la possibilità di superare la malinconia di ciò che potrebbe aver perso.

 

Eterni Interni

Dal 22 ottobre al 27 novembre 2016

Apologia del tempo di Franco Basile.

Gli interni sono scatole dove il silenzio racconta la vita stando dalla parte dei sogni, dove le ombre si fanno poetica di sottili attese mentre la sintassi della raffigurazione organizza la geografia del tempo. Gli artisti si trattengono a lungo in queste scatole, che sono grandi quanto uno desidera, che si possono immaginare immense come sale d’aspetto ai bordi di un oceano dove un rabdomante dell’indistinto conta i grani della solitudine. Impassibili a qualsiasi intromissione esterna, luci e ombre fanno comunella con le cose. Lo sguardo si posa su un barattolo, su un fiore dai petali rinsecchiti, su una bottiglia, su un orologio appeso al muro, su tocchi di colore ipersensibile allo spazio, su oggetti con i quali si possono stabilire relazioni di ordine emotivo. I calcoli degli artisti sono magie, fughe nell’illusione, invenzioni che rimbalzano da una parete all’altra, da un tavolo a un cavalletto, su ripiani senza regole fisse, in luoghi dove la filigrana del pensiero si fa complice di forme sempre diverse, su pagine dai reticoli intensificati da linee fantastiche, quindi su scritture che ricordano viaggi oltre i margini di un mondo che dalla periferia di un intonaco porta all’immensità di una nuvola, fra le righe di un cielo che esiste solo nella trama di una tela. Gli artisti sono maghi dallo sguardo lungo, esseri capaci di trasformare le memorie in particolari che includono molto del nostro presente. Riprendere ricordi ed evocazioni è forse l’unico modo che conoscono per trattenere una sensazione, qualcosa che si ricorda solo se viene raccontata, e dunque momenti e figure che riaffiorano, e permangono, tracciando parole e diluendo colori. Gli interni offrono alla poesia un accogliente eroismo, un fantastico sodalizio con chi frequenta l’epicità della tavolozza, delle emozioni, dell’assurdo.

In questa mostra s’intrecciano linguaggi di artisti la cui striscia creativa descrive un arco di tempo che dal secolo scorso porta ai giorni che stiamo vivendo. Quante storie si possono vivere nelle loro stanze, quante cose determinano una perpetua metamorfosi nell’evocare l’invisibile che si nasconde dietro la realtà. Testimonianze di sé alle pareti, dipinti, vicende colorate per dare sostanza alla memoria, immagini di persone, tocchi di pennello in spazi dove tutto è sempre diverso rispetto a quanto fa pensare il suono isocrono di una pendola. Negli interni tutto si trasforma nella rilettura di quanto stabilito dal giorno e dalla notte, nel passaggio di idee che modellando l’esistente premeditato dalla natura finiscono per compiacere a un sogno che dura, perpetuandosi in un tratto che resta, in ciò che si lega a un ricordo che non si cancella. Sono sei i pittori che danno vita a questa rassegna, sei modi di determinare la misura del tempo stando all’interno di una stanza dove oggetti, ombre e colori fanno riflettere sulla durata della vita, che può essere lunga come la bellezza di chi si ama, rapinosa come un bacio rubato, labile come la fiammella di un cerino. Dino Boschi, Matteo Massagrande, Raffaele Minotto, Nicola Nannini, Giorgio Scalco, Alberto Zamboni, autori che con le loro opere offrono gli elementi necessari a un racconto pensato, silenzioso, liricamente avvolgente e armonico nell’esplicita raffigurazione di un universo dai confini segnati tra pittura, simbologia del colore, materia delle cose, riflessione sullo scorrere degli anni.
C’è chi crede che il tempo sia un calcolo affidato alla fatalità delle cose, a ciò che determina il passaggio tra un inizio e una fine, come un raggio di luce che diventa ombra, o una luminosa tessitura che si spegne al sopraggiungere della notte. Il tempo si può calcolare in tanti modi, con una lancetta d’orologio, con un suono, con segni alle pareti come rughe sotto gli occhi, con tratti nello spazio che marcano presenze e attese, con desideri e amarezze che danno importanza a ricordi che rimbalzando sul presente lasciano tracce qua e là, fino a un intreccio di rette e parallele, con fili tenui come quelli di una ragnatela affidata al gioco delle apparenze. Ripercorrere il proprio tempo è un esercizio praticato da molti. Può succedere imboccando la strada contrassegnata da nostalgia e rimpianto fino all’imbocco dell’oggi, può verificarsi sull’onda di una recherche che si vorrebbe capace di riportare a teneri umori di giorni andati: frammenti di vita, insomma, da rileggere come una dissolvenza incrociata tra ciò che è stato e ciò che si affaccia all’immediato.

Le stanze dove Dino Boschi ha misurato il tempo sono quelle dove ha lungamente vissuto, e dove ha trasformato le cose in scandagli del sentimento. In casa aveva tutto quello che gli occorreva per dipingere e sognare, i suoi interni erano selfie di antiche verità, vecchie cose che lo portavano alla trattazione di un mondo da raccontare attraverso l’innovata dimensione di un ambiente che conosceva come le sue tasche. Riprendeva quello che gli cadeva sott’occhio, ricostruiva cose che il meccanismo dei pensieri aveva macinato assieme a fatti lontani, elementi che riscopriva nella patina di una polaroid, in un foglio spiegazzato, in un contenitore di ceramica che portato all’orecchio ricordava un tratto di arenile, una spiaggia più volte dipinta, e mai frequentata. Raccontava anche la musica che riscopriva a occhi chiusi per posarla sul cavalletto, assieme ad esecutori senza nome. Musici dalle espressioni assorte in un angolo spoglio, simbolo di una realtà che doveva fluttuare tra le note di un malinconico motivo.

Gli interni di Matteo Massagrande sono spazi di un tribunale dell’abbandono in attesa della deposizione di testimoni carichi di ricordi, di persone che agli atti di un procedimento imbevuto di malinconia risultano custodi di fatti lontani. Le stanze sono spoglie, dall’esterno filtra poca luce, le finestre – per dirla con un pensatore junghiano -fanno pensare ad aperture sull’interiorità. Le immagini proposte in questa mostra ricordano la partecipazione dell’artista padovano a una iniziativa tenuta in una sala espositiva di Bologna, dove furono proposte opere quali contrappunto visivo di un racconto di Paolo Crepet. Titolo della mostra bolognese “Il silenzio opaco”, colonna visiva di uno scritto dagli effetti stranianti. L’ambientazione traeva ispirazione da un edificio in rovina con i locali descritti come malinconico ricordo di un vivere ormai concluso, una messa in scena di allusioni psicoanalitiche e di sensazioni ingrigite dal senso dell’abbandono. Polvere, fenditure alle pareti, finestre aperte sul nulla, un resoconto della tristezza dove la componente del silenzio investe significati metafisici, tratti sulla tela eseguiti da uno stupito navigatore immerso in una sbiadita realtà, in un mondo di ordinario abbandono.

La luce è come se si pavoneggiasse rimbalzando su specchi e pavimenti di marmo. Tappeti, poltrone, lumi e tendaggi popolano la casa secondo la geometria della profusione. Le sale sono ampie, sembrerebbero confortevoli, ma nessuno le abita. 
Gli interni di Raffaele Minotto hanno un aspetto che risveglia ricordi. Ma quali? Deserte di presenze umane le stanze si rivelano realtà costruite nel vuoto, mentre nel silenzio avviene un rapporto tra cosa e cosa, tra fantasia e pensiero: stanze dove si respira una presenza che esiste senza esserci. Nel resoconto pittorico di questa solitudine, i colori corrono mischiandosi a sciabolate di luce, si intrecciano per poi sedimentarsi nell’evocazione di un universo denso di rossi, di bruni, di grigio-azzurri quali fossero momenti finali di un’idea rivolta alle cose che costituiscono il senso di una vuota attesa. Quella di Minotto è una pratica labirintica tesa a dare vita a un pensiero fatto di reminiscenze, un pensiero libero, senza particolari premeditazioni linguistiche.

E’ al risveglio che avviene il libero scambio delle illusioni. In un letto sfatto sfumano i colori della notte, il laboratorio dei sogni ha premuto l’off quando l’alba ha cominciato a battere contro i vetri. Che cosa è rimasto della notte? Tra le pieghe di una coperta smossa fili di luce danno corda alle ombre. Attorno le cose riprendono il gioco delle metafore. Ci sono i pennelli, il cavalletto, tutto induce Nicola Nannini a fare, di un mondo personale, qualcosa che assume simbolicamente le regole del tempo. Gli umori del mattino giocano a dadi con il colore acceso di una coperta spiegazzata come un plastico del risveglio, l’occhio segue i consigli di un cielo dove tutto è sempre diverso nel ripetersi delle nuvole, del disegno di una casa con i balconi che sembrano braccia incrociate, della cima di un albero che sbandiera la propria presenza rosicchiando un pezzo di cielo. La giornata di Nannini comincia da un letto sfatto, che osserva studiandolo come una mappa con stampigliate indicazioni su ciò che l’aspetta nella stanza accanto, o nel resto della casa. Prende appunti da una coperta arancione per trasformare una vecchia lavagna in un paesaggio patinato di bianco, affronta la quiete annoiata della quotidianità per inventarsi un automa di legno con cui battersi contro gli stereotipi della noia. Si muove lentamente, pensa a una figura, a un paesaggio, cataloga un ricordo suggerito da un oggetto che ha viaggiato con lui da una casa all’altra. Tutto, nella stanza dal letto sfatto, sembra sospeso nel tempo. Dipingere per Nannini deve essere come esercitare l’apologia del tempo: ciò che vede è ciò che qualche istante prima ha forse vissuto nell’illusione, come un corpo vagante in attesa di essere ancorato alla tela.

Giorgio Scalco ha la capacità di cogliere con pochi tocchi le vibrazioni più sottili delle cose, o di uno sguardo. I suoi personaggi, generalmente fanciulle, vivono frazioni di tempo che nascono dall’interazione di frammenti illusori e oggetti sfiorati da luminose sfinitezze. Una serie di elementi descrittivi accompagnano un pensiero che pare unirsi e formarsi nella vaghezza di una stasi visiva, quale attimo programmato da un sogno stabilito da una consapevole trattazione del silenzio. I personaggi di Scalco posano in ambienti dove il tempo è una giostra che ruota lentamente in base a un principio meccanico che nella reiterazione del moto si fa letargico svolgimento, un racconto dove il senso del vuoto è un canto alienante, un inno alla ricerca di qualcosa che nessuno sembra trovare. Il teatro di posa dell’artista è un luogo disadorno, comunque ricco di effetti evocativi. Oggetti destinati alle nature morte fanno da sfondo ai soggetti ripresi, scorre intanto la pellicola del silenzio mentre il vuoto colora l’inquietudine, il ricordo sembra lontano e al tempo stesso prossimo, forse impresso in un accenno di sorriso sul volto di uno sconosciuto.

Esseri indefiniti, sagome che sfiorano la vaghezza, memorie che si posano su tavole visionarie. Tra senso del provvisorio e stabilità del reale, Alberto Zamboni racconta la notte sottovoce, descrive la propria solitudine calando sulla tela realtà anonime, prende confidenza con la spettralità delle ombre in scenari brumosi come declinazione differita di verità rilette in chiave fantastica, formalizzando così scenari inattesi. Zamboni esplora la vita facendosi strada nella nebbia, non ha bisogno di uscire di casa per esplorare la terra che lo circonda, per incontrare gente gestita dal silenzio, per chiacchierare con qualche imbalsamatore di pensieri perso nel buio. Nuvole basse alimentano la pioggerella che vela i paesaggi dell’artista il quale, facendo sue idee di Edward Hopper, si chiede come si possa raccontare con la penna il momento che si cristallizza nel vuoto. Difficile tradurre in parole una determinata poetica. Hopper diceva che se si potessero raccontare certi stati d’animo con gli scritti, non ci sarebbe alcun motivo per dipingere. Zamboni sembra d’accordo con il pittore americano, che ha voluto ricordare augurandogli la buonanotte da un bar con due o tre avventori, più che altro ombre prelevate da una zona semibuia di New York. Rileggendo Hopper, l’artista bolognese ha immaginato un punto dove il silenzio delle ore piccole è l’unica compagnia di gente che ha immerso ogni ricordo in un bicchiere di whisky. C’è da perdersi negli interni di Zamboni, non esistono pareti, si va da New York a luoghi dove la bruma gioca a dama con i corsi d’acqua. Gli interni di Zamboni contengono anche stadi, immaginati durante partite di calcio che nessuno vede, perché c’è nebbia. Gli spalti sono gremiti, ai tifosi la nebbia non dà fastidio, tanto i giocatori sono ombre.

 

Nicola Nannini

Dal 27 settembre al 25 ottobre 2014

Il golem è una installazione di circa trenta metri quadri. Essa prevede la scultura centrale di un umanoide in legno di tiglio dipinto affiancata dagli studi preparatori quali bozzetti in argilla e legno, disegni, progettazioni, strumenti del lavoro ( sega a catena, sgorbia, tavolo lavoro ecc...ecc... ) . L'opera è stata pensata intorno al 2009, realizzata nel 2010 e presentata al pubblico nel settembre 2014. L'installazione vuole essere una esposizione per accumulazione caotica e spontanea di tutti gli elementi occorsi per creare l'essere antropomorfo: lo studio dell'autore preso in toto e trasportato nelle varie sedi di mostra nell'intento di fare interagire l'opera con il pubblico che entra fisicamente al suo interno nel momento stesso in cui viene creata. Essa infatti, come da etimologia della parola ebraica golem che significa non compiuto, embrione, è creazione ancora in divenire; una sorta di prototipo. Nannini ha inoltre fatto comporre sette brani musicali originali che accompagnano l'installazione poiché, come leggenda vuole, un golem prende vita attraverso formule mistiche della cabala, la musica, e le lettere dell'alfabeto ebraico nonché i nomi di Dio.

"...Che cos'è un golem?
Secondo la leggenda ebraica si tratta di un essere creato artificialmente che prende vita grazie all'impiego di formule magiche o delle lettere che compongono i nomi divini, pronunciate secondo uno specifico rituale... Nelle fonti talmudiche vengono descritti esseri dalle forme umane creati mediante la recita di determinate formule...- la visione più classica sostiene che il golem acquistasse vita se sulla fronte gli veniva tracciata la parola emet " verità " che è scritta con una Alef ( prima lettera dell'alfabeto ) iniziale. Se questa veniva cancellata restava la parola met " morto " provocando la disintegrazione del golem. Il golem sarebbe pertanto un umanoide, una forma di robot, con poteri straordinari e talvolta negativi che può essere utilizzato dal suo creatore. Il caso più noto di creazione di un golem è attribuito al celebre rabbino Jeudà Low nato a Praga ( 1525 – 1609 ) e conosciuto con l'acronimo di Maharal. Secondo la leggenda, il Maestro avrebbe creato questo automa d'argilla per proteggere gli ebrei del ghetto da vessazioni, oltre che per svolgere diverse mansioni e avrebbe provveduto a sopprimerlo allorchè si accorse che la sua obbedienza non era completa... "

Rav Luciano Meir Caro, Golem/Nicola Nannini, Cento 2014
" Nel 2010 ho scolpito un Golem. Primi disegni. Bozzetti in argilla. Prove d'intaglio ( la materia va capita ). Se conosci il disegno, apprendi i volumi, comprendi la forma. Tre mesi forsennati: sega a catena, sgorbie, patine proteico-polverose. Non ho fatto una scultura. Ho fatto un Golem. Scolpire non sapendo di scultura è gretta, incosciente energia primordiale ( è golem, appunto, non scultura. Fatto privato, non pubblico. Sostanza, non mimesi ). Lavoro senza compiacimenti o narcisismi, consensi o direzioni. Si spara nel mucchio, qui! Nulla da dimostrare. Nulla da mostrare. Dopo, forse, vedrò che farne. Ho discusso con il musicista e in sette brani ha dato suono alla materia: creazione, vanità, tradizione, coscienza, frustrazione, fallimento, distruzione... Golem: quattro anni nell'angolo dello studio a prendere polvere grigia e grigia indifferenza... Perché l'ho fatto ? Perché sono pieno di dubbi... Farò ancora, comunque. Materiale diverso, diversa la forma e i procedimenti... forse... "

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