Archeologia del Novecento – Gioacchino Passini
Dal 22 febbraio al 20 marzo 2014
Ritrovamenti misteriosi e straordinari per l’uomo che verrà
Prima di prendere le cose sul serio, giochiamo.
Un oggetto emerge dalla profondità, casualmente. Duro, scuro, pesante rispetto alla sua modesta dimensione. La forma è solida, complessa. Forse è rotto. Forse funziona ancora. No, non funziona più, ma a qualcosa deve essere servito, perché dialoga bene con le mani, era fatto per essere maneggiato con energia. Lo porto a casa, provo a pulirlo e me lo tengo. Ha una bellezza strana, una fisicità di materiali resistenti, forme carezzevoli ma forti, mi ricorda qualcosa di molto antico. In certi punti, sotto la luce, scintilla. Domani inizia un nuovo millennio e io inizio una nuova collezione.
Ingigantiti sotto la lente di un titano del futuro, preziosi di ruggini, ossidazioni e piccole fratture, scientificamente ripuliti e illuminati, gli iperbolici soggetti dipinti da Gioacchino Passini non sembrerebbero certo usciti dalle discariche, dai robivecchi, dai mercatini di provincia dove l’autore casualmente li incontra. E, se non ci fossero famigliari, persino a noi tutti questi oggetti potrebbero sembrare già reliquie di una civiltà sepolta, piuttosto che gli umili scarti di una società in rapida trasformazione, ciò che di fatto sono. Seducenti e muti, come ovviamente solo le cose inanimate sanno essere, i protagonisti solitari di questi quadri sfidano il potere immaginifico dello sguardo, sospesi in uno spazio neutro e neutrale, che nulla ci rivela del contesto cui appartennero.
Già nel 1959 il grande artista e designer Bruno Munari aveva intuito che presto gli oggetti della civiltà industriale contemporanea sarebbero apparsi distanti come relitti, perduti in un rapidissimo oblio. Con l’intelligenza divertita che lo caratterizzava, ne ricavò diverse serie di piccole opere con “ready made” inglobati nella resina acrilica, e una geniale idea di laboratori creativi per bambini, in cui sfidava a riconoscere la funzione di frammenti di oggetti tecnologici dismessi, come valvole o microcircuiti, divenuti improvvisamente oggetti misteriosi. Lui li chiamava Fossili del 2000 e, nel mostrarli, sorrideva sempre.
Non si può pensare che Passini sia spinto dalla stessa ironica consapevolezza, eppure nel suo lavoro è possibile ritrovare una dinamica simile, un’ affine volontà di restituire allo sguardo cose non ancora del tutto dimenticate eppure già in procinto di staccarsi da noi, per sfidarci a riconoscerle, a guardarle con diversa attenzione. Ma, se per Munari il gioco semantico dell’identificazione era un’acuta provocazione a liberare la fantasia, nel lavoro di Passini la percezione della caducità della memoria si fa velare dalle emozioni, e il gioco percettivo della contemplazione disorienta leggermente.
Dietro l’apparenza distaccata di una tecnica pittorica meticolosa e lucidissima, dominata da evidenti ammiccamenti al freddo iperrealismo, il pittore si arrende segretamente a piccoli abbandoni, cedimenti che rivelano un’affettività distillata a piccole gocce, lasciata scivolare in trasparenza sulle forme. Indugiare sull’ammaccatura, sulla sporcatura, sul segno dell’usura. Cercare l’errore. Individuare la scala di riproduzione, l’inquadratura, la tonalità luminosa. Nulla è casuale e nulla esplicitamente motivato, in questa progressiva documentazione delle icone marginali di un’epoca.
La tromba calpestata che ha perduto la voce di fanfara, la maschera antigas ancora tossica a cent’anni di assenza dal fronte; l’orologio scivolato dal panciotto borghese, status symbol di chi ha saputo vendere anche il tempo; il fanale e la dinamo strappati alla bicicletta rubata, ore e chilometri di strade polverose solo per lavorare; il battente sul portone della casa di famiglia, rifugio e prigione di ogni ritorno; il carburatore, il motore, il passo fragoroso e impersonale della fabbrica; il timbro dei giorni, magica combinazione di numeri per bolle di consegna e fatture, un meccanismo di gomma, legno e inchiostro per suggellare le banali date del contabile. Cose di vita comune, a quel tempo.
Caricato di un’ assoluta concentrazione, ogni oggetto si colloca solitario al centro della visione. Emblema di un racconto possibile, che tuttavia resterà sotteso, ognuno di essi resta in attesa di una didascalia che ne descriva la funzione, che ne ipotizzi l’appartenenza, che lo riporti a quel secolo breve – così come lo ha icasticamente definito lo storico Eric J. Hobsbawm – che si chiama Novecento. Quello che abbiamo sepolto nelle coscienze e di cui amiamo ritrovare le immagini. Quello in cui nascemmo noi e i nostri padri, e che ancora cerchiamo di comprendere mentre ce ne allontaniamo.
Valeria Tassinari