Tra presenza ed Evocazione – Ernesto Angelo Ubertiello

Dal 30 marzo al 25 maggio 2019

Piccoli fuochi


A cura di franco Basile

Non c’è bisogno di circumnavigare la terra per prendere contatto con l’ispirazione. Non è necessario compiere chilometri per misurarsi con una realtà fatta di stupita attesa. Basta varcare la soglia di casa, fare quattro passi e raggiungere il confine che corre tra l’ultima frangia di case e l’estensione dei campi. Ernesto Ubertiello ama registrare gli aspetti di un mondo personale, quello che appartiene, nelle apparenze,  a una minimale misura. E’ una realtà che esplora sistematicamente, che negli indugi di un’attesa fatta di trattenute effusioni suscita un che di inesplicabile, fatta di particolari congiunzioni visive e mentali capaci di una forte presa emotiva, quasi un’autobiografia del sentimento. Dipingendo il rapporto luce-colore di ciò che segue la liturgia del silenzio, il pittore tende a narrare simbolicamente il contrasto fra presenza ed evocazione di ciò che si può anche immaginare.

Ubertiello compie lunghi viaggi a due passi da casa, o, come per un gioco di prestigio, esplora la propria realtà nell’interspazio di un mondo che si allarga fra quattro mura, in una stanza dove è possibile tenere sotto controllo gli eccessi della passione assoluta. Ragionate misure le sue, con lunghi viaggi intrapresi muovendosi appena, come in un gioco, appunto, una magia esercitata da un fabbricante di bolle di sapone in cui si specchia ciò che è più prossimo. Bolle, sfere con dentro l’arcobaleno, delicate pellicole di sogno che si frangono nel vuoto, non prima però di essere registrate, per sempre, sul piano della creatività.

Come un sarto della natura, Ernesto Ubertiello esce di casa con tutto l’occorrente per prendere le misure a quello che si configura sotto i suoi occhi. Poche cose in verità nell’immediato apparire, realtà senza voci, case abbandonate abitate solo da affetti lontani. Gli uomini se ne sono andati, la terra è come se fosse stata messa sotto sequestro, sottoposta al rigore di un ignoto conduttore, con ampi tratti di pianura costretti a regole speciali, con a guardia pali della luce, tralicci, antenne della tivu accecate dalla solitudine, su tetti sbilenchi, con tegole che non si azzardano nemmeno a  prendersela con le nuvole quando piove. Questo è il teatro dove il pittore inscena i proprii programmi, ridotti il più delle volte a una recita con un solo attore, egli stesso. Esce di buonora, controlla che poco sia mutato, si meraviglia solo se contro la facciata di un cascinale non si stagliano più le ombre che aveva dipinto di grigio-azzurro un anno prima. Di quella realtà è rimasto però il quadro, con le ombre tra i mattoni, con i colori rappresi senza fine. Gli alberi sono stati tagliati, la realtà è mutata.

Ubertiello ama questi luoghi, inquadrarli è un modo per prendere confidenza con un sentimento che è una malinconia da accettare col sorriso sulle labbra. Superati i margini del paese dove le poche abitazioni si sparpagliano al di là dell’asfalto, imbocca una strada che via via si restringe. Dopo una decina di metri la strada diventa un sentiero con ai lati i binari cespugliosi dei fossi che s’infilano tra i campi con il rigore di una corsa campestre organizzata a tavolino dagli arbitri della natura. Una  galoppata dal verde perlaceo verso una linea che ad un certo punto si scontra con l’ignoto. Questa terra affascina il pittore, che dice di amarla, perché rispecchia il proprio modo di sentire lo svolgersi dei fatti. “I suoi colori, il suo profumo, le sue nebbie mi regalano emozioni che riesco a trasferire sulle tele”. Tele, è bene ricordarlo, eseguite al di là del pittoresco, dipinti che sono invece la lirica componente di un viaggio nell’intimo, una ricerca di se stesso nei riflessi di un mondo che si estende all’indefinito partendo dall’ultimo gradino di casa, senza fretta, in un momento qualsiasi del tempo. E’ una vasta, romantica estensione quella che lo circonda. Uno spazio incommensurabile contrapposto ora a una  piccola casa sotto un argine, ora alla figura di un essere solitario, sbucato da chissà dove, un uomo che fa presto a confondersi con il nulla.

Ubertiello dà vita a una narrazione che pone al centro l’intima sorpresa di trovarsi al cospetto di una  dismisura delle cose. Paesaggi senza limiti dove un albero si staglia al centro della vista, tratti dove un rustico galleggia nella bruma, rialzi terrosi che mostrano l’orgoglio di elevarsi nella piattezza delle colture, un fiore che appare e scompare, quasi un rimpianto delle stagioni, o un disegno dai colori tenui,  rosicchiati dal succedersi dei giorni. Petali appena smossi dal vento, una pianticella da incorniciare tra mattoni lucidati da un lampione in esercizio serale, un blu smagrito da accostare a un filare di pioppi che riga la geometria di un mondo dove lo sguardo di un pittore può incontrare la poesia. E trovare, tra queste realtà silenti, il senso di un’esistenza.

Qui, dove il silenzio è stato posto sotto sequestro, Ubertiello si muove come vuole. E’ ammesso d’ufficio, non ha bisogno di badge, di pass, di codici. Nessuno lo ferma, non ci sono guardie giurate e custodi. Del resto non c’è pericolo di furto: uno non si può portare a casa un intero territorio, con alberi, laghetti e cascinali. Se lo porta invece nell’animo raccontandolo con la matita e con i pennelli. E se lo tiene bene in mente, trattenendo quelle visioni dove si avverte, tra le righe dell’emozione, un brivido di estraneità al reale. Perché nulla è come sembra, perché molto dipende dall’animo che accompagna uno sguardo. Molti alberi non ci sono più, ma le loro ombre sono rimaste. Così come è successo a un campo dove una volta cresceva il grano, ora scomparso per far posto a un’altra coltura, che il racconto pittorico mantiene però vivo nel suo ricordo impresso nel tessuto di un quadro. Che fine hanno fatto i papaveri che accendevano un prato, che ne è stato di un’estensione di erica che avvolgeva da tutti i lati un casolare? Ubertiello svolge i suoi programmi con la cura di un regista legato a una calcolata meraviglia. Accorto e preciso, è come se prendesse nota della realtà con pacata adesione emotiva, al di là, comunque, di compiaciuti calligrafismi. D’altronde, la capacità non è un delitto, la stupidità detesta il talento vien da pensare nel ripasso di quei pensatori che pronunciano sentenze di condanna a chi possiede la dote di saper rendere in chiaro le cose. E’ un discorso che si insegue negli anni, frasi con parole ammuffite e con incrostazioni negli snodi della logica. Tutta accademia, vacua retorica, il valore dell’opera di Ubertiello consiste semplicemente, oltre che nel mestiere, nel fare del resoconto pittorico un riporto psicologico della realtà.

Ci sono e ci saranno sempre strade speciali nella geografia delle cose che portano allo stupore. Ubertiello le conosce bene, perché le imbocca appena gli è possibile. E’ un assiduo frequentatore di queste vie, a volte gli basta affacciarsi alla finestra per vederle. Non si stanca di fare il sarto, di prendere le misure di quanto lo colpisce. Lo fa anche di notte tenendo gli occhi chiusi. Prende le misure ai sogni, a spezzoni di un film onirico che rammenta d’aver visto stando in una stanza con una sola lampadina, una sorta di pendolo con un filo di luce capace di dettare il ritmo alla solitudine. Adesso il pittore è un assiduo frequentaore di questi spazi, eppure c’è stato un periodo in cui ha mostrato una certa prevenzione, non credeva esistessero strade del genere. Per cui è stato come una prova di trasgressione bazzicarle. In principio ha avuto la sensazione di essere finito in un luogo inesplorato. Ha camminato qua e là, ha infilato a casaccio questo o quel tratto di strada. Finchè non è stato indotto a fermare l’occhio su dettagli che altrimenti avrebbe trascurato: aveva scoperto un mondo, un capitale, una ricchezza da cui attingere.

Quando usciva aveva l’impressione di camminare in mezzo a una polifonica tristezza. Lo scorrere dell’acqua in un canale invisibile, un battito d’ali, il rimbombo di un motore destinato a spegnersi nella nebbia. Doveva raccontare tutto, rintracciare e conservare storie lontane, luoghi che adesso si perdono in una toponomastica senza nomi, con la numerazione delle case affidata ai registri della natura, con la memoria sparsa ovunque, anche su un olmo intisichito che guarda in alto per scoprire il cielo. Le incursioni nei campi sono dunque frequenti, gli servono per scoprire nuovi aspetti del territorio con la complicità della luce e delle trasformazioni dei luoghi dove l’uomo ha messo le mani. Torna spesso a rivedere gli scorci che più volte ha riportato sulla tela, vuol vedere come sono cambiati, o se sono rimasti come li ha visti mesi, o forse anni prima, quando percorrere certi sentieri voleva dire accomunarsi al senso letargico e coinvolgente della solitudine. Uno, in particolare, è soggetto a  periodici controlli, che sono visite dettate dal cuore. Era d’ottobre inoltrato, se ne erano andate anche le ultime rose, che un autunno dall’aria tiepida aveva trattenuto tra il fogliame. Erano piccoli fuochi, con il loro rosso acceso sbucavano da un reticolato d’edera che avvolgeva una colonnetta dal vertice decapitato. E’ un punto, questo, che Ubertiello raggiunge sovente perché gli sembra che tutto quello che si trova attorno renda visibile il distacco tra esistenza terrena e idea dell’infinito. Il respiro della natura, l’orizzonte che si confonde al di là delle possibilità di percepirne i confini, e quella colonnetta che si propone come un segnale del tempo, un promemoria che spinge alla frequentazione di una geografia speciale, con un pittore che ama portarsi al capezzale di un piccolo fuoco, di una rosa che non c’è più.

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