Dipinti – Gioacchino Passini
Dal 28 novembre 2009 al 9 gennaio 2010
In mostra, una trentina di opere, quasi tutti olii su tela, caratterizzati da una oggettivazione iperrealista che scivola inesorabilmente in una sorta di metafisica del reale: nature morte con mele succulente, grappoli d’uva, cachi, arance con spicchi secchi; e poi trapani, lampadine, valvole meccaniche, pezzi di motore, orologi, il tutto realizzato con magistrale acribia e sapienza pittorica che rivela una solida padronanza della luce.
“…e questi sono i miei fiamminghi” mi ha detto un giorno Gioacchino Passini mostrandomi alcune opere nel suo studio. In effetti, il richiamo alla pittura nordica in senso più ampio appare come una costante nella sua ricerca, le conferisce sostanza e al contempo la collega a un percorso (quello che la Alpers definisce “arte del descrivere”) che riconduce lontano nel tempo. Riporta a un mondo, quello olandese del Seicento, che rimane affascinato dagli studi di Keplero, dagli scritti di Bacone e che fa dell’occhio, sulla scia di quegli studi, lo strumento principale per la conoscenza della realtà. Non la cultura dell’individuo, quindi, quella “libresca”, nutrita dalla lettura dei classici, ma l’occhio umano, con le sue caratteristiche fisiche, la fiducia nella
scienza ottica e nei suoi traguardi. Ecco allora che, in quel mondo, le nature morte dai frutti opulenti, gli interni inondati di luce dove donne e uomini comuni compiono azioni quotidiane sospese nel tempo diventano il modo per conoscere la vita e descrivere la realtà, senza necessariamente ricondurre sempre, come avverte la studiosa prima citata, a contenuti simbolici.
E la realtà quotidiana si palesa anche sulle tele di Passini in un trionfo di ácini ambrati, di mele dalle superfici polite, di fichi generosi, di conchiglie sinuose, rivelati da una luce nitida, fisica, che ne scandaglia e descrive ogni minimo dettaglio. È il trionfo dell’occhio, invitato com’è a scoprire le differenti superfici, la porosità dei limoni, la patina biancastra delle prugne, la consistenza cristallina dei chicchi della melagrana, in un viaggio dei sensi che dalla vista pare arrivare al tatto.
Attori silenziosi nella vita si impongono monumentali sul grande palcoscenico della pittura recitando finalmente sé stessi, senza maschera alcuna: le grandi foglie accartocciate, i cedri, la pannocchia di mais, le rose ci conducono, complice la luce, nella quotidianità alla quale appartengono, al pari di quegli oggetti, più o meno curiosi, come il fanale di una bicicletta, una dinamo, una rotella, una lampadina o il battente di un portone, indagati con la medesima cura che Passini dedica ai volti segnati dal tempo di Ida o del liutaio Otello Bignami, dove la tecnica si stempera negli affetti personali. Gesti semplici, quotidiani, come quelli del muratore Marino, del falegname Gaetano, del barbiere Remo, dello scalpellino Giancarlo, sino aMaria, che sembra riunire come un ponte ideale certe scene di genere olandesi e francesi all’Iperrealismo degli anni Settanta.Mi pare ci sia di più, quindi, nell’opera di Gioacchino Passini di quel
rifarsi alla corrente iperrealista e alla fotografia, più volte citate in relazione al pittore di Fanano e all’immanenza dei suoi soggetti: in lui, uomo dalla profonda cultura musicale,
avvezzo ai tempi lenti dello studio sugli spartiti, si coglie la sensibilità di andare oltre con la ricerca, sino a recuperare, aggiornandoli, i legami con un passato e una cultura ben più lontani e complessi. Quelli, appunto, dei “suoi fiamminghi”.
Silvia Rubini