La geografia dell’altrove – Nicola Nannini
Dal 6 ottobre al 17 novembre 2018
Un mare di terra
di Franco Basile
Tutto nei racconti di Nicola Nannini pare svolgersi lungo una striscia animata dal ricordo, quasi a dire, in un tragitto dove tempo e cose si stringono per prendere accordi con la realtà presente. Sospesi in un esercizio evocativo, le immagini formano un racconto nella vaghezza di un passato che il pittore è come se incontrasse fra le trame di una lontananza più prossima di qualsiasi cosa. Questione di sentimento, Nannini sogna di essere quello che vuole, di ritrovarsi ovunque attraversando i molteplici territori dell’arte. I colori sono appunti della mente, sono tratti autobiografici, incontri dello sguardo e della rievocazione. Ripassi del tempo, tentativi di ciò che è stato? No, Nannini non è pittore che scaldi la memoria nel pentolino della nostalgia, che si attardi in trasferimenti ipnotici verso il rimpianto. Ha il mondo sotto casa, lo inquadra velocemente. A due passi dalla casa dove vive si allunga un argine che porta ai campi e all’estensione che ama tratteggiare, a quanto gli è più prossimo, che l’avvolge con le sue luci e i suoi colori. Dunque una vicenda di suggestioni, di oggetti, di spazi aperti, di considerazioni surreali, di cieli bianchi di nebbia e di uomini che attraversano la piana come naviganti di un oceano di terra e di alberi. Poi ci sono il giorno e la notte, il vuoto e il pieno, scritture e colori innestati in una storia capace di tenere tutto unito.
Non è possibile omologare i passaggi del tempo, ogni identità è variabile, tutto appare diverso quando luce, pioggia e vento decidono di fare a modo loro. Come avviene per la vita, la natura segue la legge dell’imprevisto mentre tutto quanto ci circonda sopravvive alla propria estinzione. I rami le zolle, le foglie e l’erba, ogni cosa è pronta alla trasformazione, a farsi nuova identità. Proprio per questo la natura offre tutto alla poesia, anche la possibilità di nuovi punti di contatto con ciò che è stato, o con un quotidiano che alla mente di un artista può diventare assoluto. Nannini rincorre le ombre, le inquadra a mo’ di tappeti semoventi gettati dove capita, sotto un albero, ai piedi di un muro dove un lampione proietta parte di sé secondo toni rosso-brumosi, oppure alla base di un cipresso indifferente al triste ufficio cui è destinano allorché vien fatto ergere da un cimitero, affusolato corpo nero-verde che s’inebria quando la luna rimane appesa alla propria cima. Il vento scuote il culmine dei rami, nuvole cariche di pioggia viaggiano contromano, il pittore annota tutto, segna sulla pagella del sentimento ogni fatto che lo colpisce.
La natura è un viaggio onirico, una forma di vita che può trasformarsi in romanzo lirico della terra. Nannini non ha bisogno di scoprire o rivedere cose lontane, adesso viaggia senza muoversi, gli è sufficiente fare quattro passi per incontrare quello che cerca, di giorno, di notte, sempre. Si muove in compagnia dell’idea di dover portare a termine un compito. Per un po’ il pensiero è un assillo che lo conduce qua e là, fino a trovare quello che cerca. Verità e immaginazione, gocce di fantasia che calano come un dripping senza regole, una pioggia di luci e colori, un gioco di immagini destinate a marcare la superficie dei sogni. Inesauribile reporter di emozioni il nostro pittore ritrae situazioni estetiche, i cambiamenti che il tempo apporta alla terra, tutto ciò che, in fondo, può essere tradotto secondo una misura evocativa. Nei lunghi attraversamenti della pianura e come se si sentisse un collezionista di sogni.
Il tempo, i luoghi, le cose, la sua è una raccolta di echi dove emerge l’enigma del tempo. Lungo le vie che tagliano i campi si esercita ogni giorno in vista di una corsa solitaria, senza concorrenti se non il mistero d’esistere. Sotto il sole, nell’oscurità, di giorno, nella brillantezza di un’aurora o sulle rive di un fiume. Tramonti e albe, ombre che si agitano durante notti cariche di un’energia invisibile che si avverte nell’agitarsi di un germoglio come metafora di quanto è stato, oppure annuncio di ciò che avverrà. Lo affascina il pensiero di ciò che si cela al di là del buio mentre il filare dei minuti dilata la misura della vita.
L’oscurità racchiude un giorno prossimo a venire, e così per sempre, fino a quando un lume qualsiasi avrà la possibilità di rischiarare un tratto d’esistenza. L’ombra è un segreto nel vuoto, oppure, per l’artista, una nube che avanza sospinta da una fantasia retrospettiva. Correre da un punto all’altro, da una borgata a un campo di grano, apparire qua e là per meglio nascondersi, coltivare illusioni che incontrano l’ansia di un futuro possibile, un epico avvenire che si sbroglia ogni volta che il sole si libera dei lacci della notte. La luce cancella le tracce di ciò che sarebbe potuto accadere, di ciò che era latente nelle pieghe del sonno, o che sembrava germinale in una realtà ancora da valutare e dentro alla quale ci si può nascondersi in compagnia di un filo d’erba, o di un rosso papavero. Nella mente cose e uomini scomparsi gli fanno compagnia con la loro assenza, con i loro lunghi tratti di ricordo. Chiude gli occhi, lancia la rete della memoria, la tuffa nel fondo della terra che si espande simile a uno sconfinato mondo d’alberi, di canali e di spazi rigati come una tabella marcata da mille solchi. Quando gli sembra giunto il momento, tira su la rete e la ritrova piena di storie, di ricordi che nel gioco dei rimandi si trasformano in effetti da custodire per sempre, in immagini destinate a chi sa guardarle.
Nelle vicinanze di casa si estende dunque un mare di terra e di alberi, di corsi d’acqua dalle rive rugose soppalcate d’erba e canneti che si spingono chissà dove, fino all’indefinitezza della costa, in un altrove dove il mare non ha isole come quelle descritte dall’artista, cioè casolari nella notte o vecchie strade con i geroglifici di trascorse esistenze. Oppure sono grumi abitati da figure immobili, quasi messe in posa, personaggi che fissano la strada quasi a voler calcolare il passaggio delle ore. Qui, l’atmosfera è stordente, commista a dati sospensivi di memoria boekliniana e lucori simbolisti. Qui si vive l’aspettativa di imprecisati eventi, magari di qualcosa che possa smuovere il gravoso stato d’attesa al quale sono sottoposti uomini e cose.
Agli occhi del pittore uno spicchio di pianeggiante universo attorno a casa determina e riflette animati svolgimenti creativi. Il territorio che attornia la sua dimora è un mondo dai confini invisibili entro i quali è facile dare forza alla libertà del sentimento, e dove è semplice accedere all’utopia seguendo un indirizzo dagli accenti fantastici. Osservare questo mare di terra, e tutte le cose che si ammantano di silenzio, può essere un’avventura nel tempo, qualcosa che consente di sopravvivere alla propria fine. Ripassi della memoria, rimpianti? Le perlustrazioni di Nannini nella piana sono un’abitudine, un esercizio dello stupore. Qui trova motivi d’ispirazione, soprattutto ritrova sé stesso. Gli sembra di specchiarsi nel tempo che ha vissuto, in quei giorni che paiono scorrere in un lucido defilé ai bordi di un macero dove andava a nuotare quando era bambino. Ora, un punto dove si sofferma spesso si trova in quel che resta di un borgo semidistrutto dal terremoto. Lo imbarazza il senso stupefatto che si legge negli occhi di una gotica figura immersa nella luce di un cielo sottovento. Sono attimi, sposta lo sguardo, scopre altri punti tra cui oggetti che paiono voler tener nascoste le loro vicende più intime. Ecco nuove emozioni, sensazioni larvatamente alluse per lasciare aperta la narrazione a qualsiasi storia. Ripercorrendo i ricordi una certa storia potrebbe essere cominciata dalla fine di una giorno, quando i pensieri del pittore si posarono a cavallo di un crepuscolo e il blu diffuso di una sera che si era appena accorta che il sole se ne era andato. Allora il pittore era molto giovane e non impiegò molto a farsi convincere dal paradosso di un’ombra che si stropicciava contro un faggio lasciando credere di poter continuare a distendersi in una normalità perpetua. Ma esiste la normalità di quanto ci è vicino? Sembra invece che tutto cambi a seconda degli umori del tempo, per cui tutto si illude che la vita rientri nell’uniformità delle cose.
Ci sono momenti in cui la tentazione di conoscere il passato è forte. Per Nannini il viaggio nella conoscenza è prassi di ricerca, lo fa, e lo dimostra, per rompere con ogni premeditazione. E’ come se si divertisse a frequentare antichi maestri per sillabare un nuovo alfabeto e dare particolare vigore al proprio linguaggio. Un fare, il suo, che non cerca scorciatoie poveriste, informali o astratte. Per dirla con Bernard Shaw, c’è chi dipinge per osservarsi dentro, per raccontare non quello che vede, ma che sente. Nannini è un romantico, il sentimento lo porta a celebrare sensazioni dove la filosofia incrocia la poesia, come quando rivolge leopardianamente domande alle stelle riflesse in un tratto di fiume, o alla luna. “Che fai silenziosa luna?” chiedeva il poeta di Recanati in una notte intessuta di scuro e di silenzio. Sono frequenti i viaggi notturni di Nannini, se non altro per dar forza a taluni incanti della memoria. Una visione gli torna spesso alla mente, quella vissuta in un momento in cui spolverava con i pennelli la mitologia dei luoghi. Quella sera le nuvole si erano messe in coda sospinte da una corrente leggera, non c’era pericolo di tamponamento. Nivei vapori passavano davanti alla luna, tutto era tranquillo, una casetta pareva sorretta da due colonne sormontate da cigni di pietra mentre l’ampollosa sfinitezza di un salice si manifestava con un tuffo di rami in un laghetto dalla superficie immota. Passeggero della notte Nannini era profondamente concentrato nell’ osservare quello che si rifletteva contro la parete di un’abitazione dalle finestre azzurrate da un televisore. Intorno regnava la monotona consapevolezza di una pendola che, lanciando le solite note, ricordava lo svolgersi del tempo. Le luci andavano e venivano, i lampioni facevano a gara con le ombre. Deve essere bello per un pittore trascrivere nella tessitura di una tela il fruscio dei rami, il rumore dell’acqua, il suono di un lontano richiamo. Notte e giorno, luci e ombre, la pianura attraversata dagli occhi e dalla mente. I pali della luce che schizzano lungo le strade mentre dai vetri di una finestra si passa da un improvviso baluginìo a un senso di smarrimento. Nei quadri le ore paiono veleggiare assieme alle nuvole quasi a voler concedere all’artista la facoltà di illudersi sulle cose, e nel piacere del ricordo offrirgli la possibilità di superare la malinconia di ciò che potrebbe aver perso.