Still Life – Bruno Pegoretti

DAL 24 APRILE AL 15 MAGGIO 2010

STILL LIFE, ovvero le ragioni dell’arancia.

E fu quando l’arancia si srotolò la buccia scrofolosa per scoprirne la polpa, che s’accorse con stupore che la natura vegetale di cui era fatta s’era mutata, nella sua essenza, in un groviglio di fibre muscolari, vasi sanguigni, nervi, neuroni e tutto il resto, frattaglie comprese.
Le sembrò -o s’immaginò- di avvertire perfino la scomodità del ricordo antico di un’emicrania adolescenziale (in realtà una scusa per non andare a scuola), e poi quel brutto giorno dell’appendicite e, molto più recente, un maledetto, improvviso, colpo della strega.

Preoccupata, si guardò intorno: in uno spazio che a lei parve infinito, senza tempo ne confini, galleggiavano immobili altre creature: vegetali anch’esse, verdura e frutta, che, come lei, sembrava avessero mutato sostanza, sostituendo succhi e tessuti con una nuova anima, sprigionata in un’organicità animale, se non addirittura umana.
Si sentì perduta ed avvertì il bisogno di chiedere aiuto. A chi? Gli dei, nel loro altrove aristocratico e inaccessibile, stavano sicuramente parlottando di calcio e di donne, mentre gli uomini, laggiù laggiù, a bisticciare per le loro piccinerie quotidiane. Quanto ai suoi “compagni di viaggio”, beh, se ne stavano muti, distanti, assenti. Nella sideralità sconfinata, erano astronavi aliene in attesa dell’ordine di attacco.
Li osservò meglio. Esseri ipertrofici, conglomerati di materia grossolana e greve, anarchica. Eppure, a ben vedere, questo intrico minerale, apparentemente senza scopo, forgiato da un dio ubriaco, rivelava percorsi precisi, solchi profondi progettati per disegnare venature, anfratti, bubboni che, si capiva, dovevano stare lì, proprio lì. La logica avrebbe imposto che quelle “cose” che arditamente si sarebbero potute ancora definire vegetali, fossero ancorate, condannate dalla pesantezza della loro natura, al suolo. Invece se ne stavano in quella regione remota del cielo, come congelate, sospese nell’assoluta assenza di gravità, ad una distanza fra loro né vicina né lontana. Sicuramente erano vanitose, perché nella staticità assunta conservavano pose da ballerini consumati. Erano circondate, per la minima porzione di spazio occupata da ognuna di esse, da un particolare colore, diverso per ogni ospite di quel mondo scompaginato. Una tinta piatta, plasticosa, artificiale: roba da Photoshop, insomma. Quei colori, poi, erano sicuramente scelti. Sicuramente sì, perché l’arancia ricordò che, non so quanto tempo prima, immaginando il suo colore preferito, un celeste-baby, se lo vide materializzarsi improvvisamente tutt’attorno, a mo’ di protezione, di casa.

Ma ciò che colpiva di più era la loro dimensione fuori scala.
Frutti-femmina abnormi, spaccati e lacerati, elogi alla fertilità, ebbri di succhi, di semi, di vita futura.
E poi alcuni piselli che, usciti senza permesso dal loro baccello, più grandi di una pallina da tennis, avrebbero potuto placare il languorino insaziabile di Gargantua.
E che dire della titanica presenza della melagrana squaciata a mezzo, che rilasciava i suoi semi liberi nello spazio attorno? Sicuramente era Lucy (o qualche parte di lei), pensò l’arancia. Sì, proprio quella della canzone, lanciata nel cielo con i suoi diamanti. Non c’erano i cavalli a dondolo e le torte di marmellata, ma era certo lei, trionfante e carnosa, Lucy e i suo diamanti.

Quasi di fronte all’arancia, poco distante da tre fiori di zucca dall’aria tormentata di chi, in passato, è stato ospite inquietante della Piccola Bottega degli Orrori, se ne stava sospeso in quella placidità stellare, un cipollotto stortignaccolo, più pronto per la spazzatura che per il soffritto. Era circondato da uno spazio dorato. “Come una Madonna bizantina”, pensò l’arancia, disapprovandone la scelta. Si soffermò poi sulle dimensioni: quella sorta di vegetale avrebbe strappato le lacrime anche al più sincero dei coccodrilli!
Infine guardò se stessa, la sua gocciolante elefantiasi: “Se avessi ancora tutto il patrimonio di vitamina C che compete ad una simile stazza, preserverei dal raffreddore invernale almeno cento bambini”, sospirò rassegnata, perchè In quel nulla immoto, senza fine, abitato da grottesche vite mutanti, non c’erano bambini.
Capì, allora, che nulla c’era da fare: si trovava là e chissà quanto ci sarebbe stata.

“Still Life”, pensò, “ancora vita”, tradusse alla lettera, un po’ come le veniva, sicuramente sbagliando.
“Ancora vita”, sospirò piano. Sorrise, se solo avesse avuto un paio di labbra e qualche dente da scoprire.
Quindi s’accoccolò nell’angusta porzione di spazio a lei riservata, pastellata di un delizioso celeste-baby e si mise in posa, come tutti gli altri, eternamente fissa come una minuscola stella del più profondo dei firmamenti.
Non voleva trovarsi impreparata, semmai qualcuno fosse passato da quelle parti a scattare due o tre foto.
Emanuele Maria Orvieto

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